giovedì 16 aprile 2009

tra una poesia e una storia vera

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Dignità e risorse di una vita in panchina
Doppiosguardo



C’
è una panchina, nelle nostre città, dove sicuramente ci siamo seduti almeno una volta nella vita. È una panchina come tante altre, scorticata un po’ di più, scolorita un po’ di più, forse.
Ha sorretto e sorregge fatiche e momenti di svago, ci ha aiutato a riposarci quand’era il momento giusto. Così se mi avessero chiesto fino a due giorni fa una parola da associare a panchina avrei detto probabilmente «calma» oppure «senza pensieri».
Fino a due giorni, fa. Poi mi è stato presentano Alberto, 62
anni. Che vive su una panchina da quando ne aveva 45. Prima faceva il dirigente d’azienda, poi quell’azienda è fallita e con essa è cambiata una vita intera. Perché quel crac si è portato via la casa di Alberto e una moglie che ancora oggi non gli parla più. Alberto mi accompagna a vedere la sua panchina, e io la guardo bene: ha il legno sdrucito e la ruggine che si mangia i piedi in ferro vecchio. Ha qualche scritta in blu che le dà voce su un lato, e un’asse mezza storta a destra: «Lì ci metto la testa, ha quasi la forma della mia nuca», mi dice Alberto. E quando mi siedo cerco di non pensare che sono su un po’ di legno e un po’ di ferro, penso che sono sopra una vita intera. Una vita lunga 17 anni e chissà quante incredulità, chissà quante paure. Mi fermo e fisso cosa vedo davanti a me, qualche albero e il traffico milanese mai stanco. Poi mi giro di nuovo verso Alberto, ha la barba grigia e gli occhi annacquati dalla fatica.
Fatica di aspettare il ritorno di una vita persa, prima di tutto. Fatica nel cercare di capire cos’è successo quando quel giorno, passando di qui, ha deciso di sedersi. E poi di fermarsi, per una stanchezza talmente grande che non l’ha
fatto più rialzare. Ha una borsa, Alberto, e due scatoloni pieni di vestiti e coperte logore: mentre li osservo, lui dice è tutto quello che mi è rimasto assieme agli sguardi della gente che passa. Racconta che da lì ha visto camminare vecchi amici, la metà diventati indifferenti, e un paio di volte quella che un tempo era l’amore della sua vita e che non ce l’ha fatta a resistere alla mancanza economica. Si è risposata, Alberto lo sussurra e strizza gli occhi, poi sorride e allarga le mani, mani che stringono lo schienale della sua panchina. Ha un aspetto docile e per niente trasandato, Alberto, nonostante il freddo e la vergogna che si è preso. Ma non la paura, ci tiene a dirlo.
Nessuno di noi clochard ha la paura come compagna, soltanto una specie di peso che si trasforma in abitudine e poi in una stanchezza senza fine. Così la panchina è la mano che culla, è l’unica possibilità di resistere: sorregge quello che è stato e quello che è, non fa domande, non chiede soldi e non esige imbarazzo. La panchina regala dignità a chi la dignità è stata tolta. E lo fa con la sua immobilità disinteressata e allo stesso tempo sensibile. Perché quel legno e quel ferro si sono
presi la forma del corpo di Alberto, e i suoi ricordi.
Racconta che quando lui non c’è e qualcun altro si siede, lei, la sua panchina, lo sente che c’è un estraneo e diventa scomoda. Nessuno resiste, si alzano tutti e questa è l’unica fedeltà che Alberto dice di aver conosciuto. L’unica in tutta un’esistenza.
Un’esistenza persa e ritrovata. E sorretta da un po’ di legno e da un po’ di ferro che ben conoscono storie buone e storie tristi, di memoria e di stanchezze.
Storie di uomini. Che hanno la forza di sedersi su una vita intera, e non chiedere altro se non di essere sorretti. Se non di essere sorretti.


di Marco Missiroli

10 commenti:

  1. Quante storie così ci sfiorano ogni giorno: persone che non chiedono più niente alla vita se non un pò di attenzione,di sostegno...riusciamo noi ad essere la panchina di qualcuno?

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  2. Dolcissimo lo scritto che hai postato e la foto rende bene la solitudine di chi non ha casa...nè affetti.
    Situazione, purtroppo in crescita nelle nostre città.

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  3. Uno spunto di riflessione che non sempre cogliamo...
    E un po' di vergogna. Noi che abbiamo tutto e siamo comodi e satolli sì, che dovremmo averne un po'.
    Almeno quelli che girano la testa per non vedere le vite degli altri...

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  4. Questa storia mi ha toccato, soprattutto quando parla della fedeltà!!! Quanti amici, quanti compagni, amanti, mariti e mogli ti voltano le spalle quando le cose vanno male???
    Un abbraccio
    Francesca

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  5. Grazie per il tuo commento. Leggi il mio che ti spiega tutto.

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  6. Quanta solitudine e tristezza negli occhi di queste persone...senza una casa, nè un affetto...
    Ciao
    Cinzia

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  7. La panchina è diventata più tenera e più calda di qualsiasi altra cosa. Sembra che nel suo legno consumato e nel suo ferro arrugginito si siano nascoste la solidarietà e la dolcezza fuggite dal cuore degli uomini. Sunt lacrimae rerum...

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  8. Quante sono le cose di cui dobbiamo vergognarci noi persone "normali"?!
    Ciao Aliza

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  9. Molto toccante!
    Un racconto che fà rifflettere.
    Grazie!
    Sue.

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  10. Hi!
    I like your picture whith the red red gardensofa. And alson the tree in poesia.
    I do´nt understand italian, but I will...soon...I hope. ;o)
    Best regards
    Lo

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